E questo spazio noi lo abbiamo fatto nostro, senza imparare mezza parola di olandese perché qui tutti parlano perfettamente inglese. Tutti tranne uno, il commesso di un negozio di ciarpame, tanto caro alla Bertux, che tenta di spiegarci che se compri 3 ciarpami, magicamente nei puoi prendere 6, non pagando quelli meno cari. Ecco qui, l’inizio della nostra giornata, che doveva essere dedicata all’arte e alla cultura ma è già partita nella direzione opposta. Pranzo da porchettaro per la sottoscritta e il Poser
e poi via verso il museo di van Gogh. Per fare le cose per bene abbiamo preso visita con guida, per la durata di un’ora e mezza. Troppo breve per la sottoscritta e il Poser, un calvario per le ragazze. Ad attenderci all’ingresso la guida multilingue, segno di riconoscimento “ombrello azzurro” come specificato nella app.
Alle 14:15 in punto, varchiamo la soglia del van Gogh museum, un edificio costruito nel 1973 per volere del nipote di Vincent, che, quadri alla mano, chiese alla città di Amsterdam di costruire un museo dedicato, onde evitare che i quadri dello zio fossero esposti in altri musei del paese.
L’amministrazione si fatta due conti e alla fine ha detto a Vincent junior “a noi sta bene ma i quadri ce li metti tu “. Andata. E da oltre 50 anni milioni di persone varcano la soglia del museo alla scoperta dell’artista, del rapporto con la famiglia e con la campagna, unica vera maestra di vita.
La guida chiama van Gogh per nome, come se fossero vecchi amici, forse se passassimo ore e ore tra i dipinti, anche noi lo chiameremmo Vincent. L’amica di Vincent ci spiega come l’artista abbia imparato da solo a dipingere e ci mostra alcune imprecisioni in alcune delle opere più famose, come ad esempio i “mangiatori di patate”.
Se guardiamo bene, la signora tutta a destra ha un braccio bislungo, di lei però l’amica di Vince non conosce il nome, per cui si limita ad indicarla con il dito, tipo “quella là”.
Da qui si capisce che l’unica vera amica era lei.
Ai piani superiori ci racconta del periodo francese, in cui Vince fu ospitato dal fratello Theo, mercante d’arte, e dalla famiglia di lui. A Parigi van Gogh entra in contatto con gli artisti dell’epoca, gli impressionisti, i puntinisti, tutti quegli artisti che segnano una rottura con il passato e che a scuola ci piacevano di più perché in fondo, parlano a tutti. Sempre in Francia, a Auverse, vive un periodo con Gauguin, con cui litigava continuamente ed è proprio la fine di questa amicizia che segna il declino della sua salute mentale fino ad arrivare all’epilogo che tutti conosciamo.
La guida ci spiega che i numerosi autoritratti non erano segno di vanità ma studi, non potendosi permettere un modello, usava se stesso- e probabilmente anche uno specchio. Ci svela anche che l’uso dei colori non è casuale, ma l’artista usa sempre colori complementari: essendo lui rosso di capelli, si ritrae vestito di blu. E la casacca da contadino è per lui un modo di raccontare le origini, la campagna da cui tutto prende vita. Terminata la visita, andiamo a farci derubare dal bar del museo, per poi dividerci in due gruppi: Poser e Piccolina verso l’hotel, a vedere la mostra di Wong (era compresa nel biglietto) e ultimo giro di shopping per la sottoscritta e la Bertux.
Wong era un artista canadese la cui breve vita fu influenzata molto dal lavoro di van Gogh, tanto che le sue opere sembrano un Vincent rivisitato. Lì abbiamo visto il dipinto della stanza da letto di van Gogh, stanza a lui cara che ha dipinto con colori caldi.
Ricongiunta la truppa ci siamo recati dal nostro wokettaro preferito, un ragazzo siriano che studia a Leiden e che lavora di sera per mantenersi. Il posto si chiama Wok Inn, la pulizia forse non è il suo punto di forza ma il cibo ti rimette in pace con il mondo.
La Bertux, che aveva già porchettato con un hot dog ha preferito chiudere in bellezza con una mega crêpes alla Nutella, tanto da domani si torna a regime.
Salutiamo così, con i baffi di cioccolato, un Paese che vale la pena visitare.
Dag! Che vuol dire arrivederci- almeno una parola la abbiamo imparata.